Autore: Claudio Michieli
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9 dicembre 2024
Film disturbante, coraggioso e stratificato “The Substance”, che introduce svariati temi che meriterebbero un lungo spazio di riflessione ad hoc. Mi limiterò a qualche osservazione sugli elementi che mi hanno colpito maggiormente senza nessuna pretesa di esaustività. Il film rientra nel genere del body horror, ma è anche un film sul tempo, sulla vita, sui limiti, sulla paura dell’invecchiamento e sull’angoscia di morte. Parallelamente è anche un film di denuncia delle profonde pressioni che la società esercita, specialmente sulle donne, con l’imposizione di modelli e standard artefatti, ma spacciati come altamente desiderabili. Di per sè nulla di nuovo in questo senso. Sono temi ampiamente dibattuti, come l’oggettificazione della donna, il corpo femminile ridotto unicamente a corpo che deve accendere il desiderio oppure generare figli, altrimenti è scarto. Eppure sono temi le cui conseguenze qui vengono sbattute in faccia allo spettatore con forza, con estrema durezza e con violenza. Le immagini sono crude, il corpo viene spesso mostrato nella sua nudità. Pare che la regista intenda appunto “mettere a nudo” l’assurdità e la mostruosità dei finti valori della società dell’immagine, e anche le ferite provocate dalla violenza a cui il corpo femminile viene sottoposto, corrispettivo concreto della violenza psichica che viene esercitata sulle donne con l’induzione all’inseguimento ossessivo della perfezione. Elisabeth Sparkle, una straordinaria Demi Moore, è una star di Hollywood ormai in declino alle prese con una perdita che richiederebbe l’elaborazione di un lutto, elaborazione che però non avviene. La perdita è quella della bellezza e di un’immagine per anni ammirata, potremmo dire venerata. È proprio la tenuta emotiva di Elisabeth a livello immagine di sè che, al compimento del suo 50º compleanno, viene messa in crisi dall’esclusione/espulsione spietata dal suo programma TV. Il Direttore del Network, un ottimo Dannis Quaid, è una figura ripugnante (chi è il vero mostro?) determinato a sostituirla con una nuova e giovane stella. Elisabeth viene cacciata dal suo programma come materiale di scarto per il disprezzo che la sua bellezza in declino provoca. Deve essere sostituta al più presto, come si farebbe con un pc o uno smartphone alla fine del suo ciclo di vita. Ecco appunto la fine, quella che angoscia la stessa Elisabeth, la fine di quel ritorno d’immagine che è così importante per ricavare (come capita a diverse giovani ragazze su Instagram) una qualche sensazione di esistere per qualcuno, che diventa spesso una dipendenza, come indicato nel titolo del film (sostanza, appunto). Appare significativo in questo senso che nella vita di Elizabeth manchi una relazione sentimentale, un affetto. È sola. La sua identità subisce potenti scosse telluriche che provengono dal confronto non elaborato fra passato e presente, fra ciò che è stata e ciò che è. La Elisabeth del presente osserva più volte con tristezza e disprezzo la sua immagine riflessa allo specchio in una comparazione dolorosa con la sua immagine del passato che finisce per mobilitare solo i suoi meccanismi di difesa e di conseguenza il ricorso alla misteriosa “sostanza”. Quest'ultima promette di generare dalla stessa Elisabeth un doppio migliorato, più giovane. È la promessa del ritorno allo stato precedente del Sé ammirato. L'ossessione per la bellezza e la dimensione pervasiva di controllo sul corpo che aleggia in tutto il film sembrano suggerire la presenza di un annullamento retroattivo. Tornando all’identità, pare degno di nota che l’identità di Elisabeth venga messa in crisi anche (e persino di più) proprio dal confronto con il suo doppio giovane, di nome Sue (una bravissima Margaret Qualley), migliorato, potenziato. Al dolore si aggiunge, infatti, poco alla volta l’invidia per il successo sfavillante di Sue. All’invidia segue la rabbia, che infine diventa distuttività. Curiosamente allo sguardo di disprezzo del Direttore del network nei confronti di Elizabeth corrisponde un identico disprezzo di Sue nei confronti del corpo-cosa di Elisabeth, osservato come una carcassa di scarto, abbandonata senza rispetto sulle mattonelle fredde in un'intercapedine ricavata all'interno del bagno e al buio. La promessa del rimedio magico tramite la sostanza sfuma, però, miseramente lasciando solo rovine, proprio per il fatto che il nucleo centrale del problema non è stato elaborato, ma solo evitato. “Ricorda, tu sei una”, ripete la voce del misterioso interlocutore con cui Elisabeth parla al telefono. Il problema è che Elisabeth sembra non essere una a livello psichico, non è integrata, potremmo dire. Il duplicato migliorato si presta molto bene ad esser letto come materializzazione della scissione fra le parti della protagonista. La regista sembra avvertici: "Badate bene, l’immagine è tutto. Null’altro conta.”. È un mondo bidimensionale, da rivista patinata. L’effimero prende il posto del durevole, la velocità e superficialità prendono il posto della lentezza dello spazio di pensiero e dell’approfondimento, della elaborazione. Alla lunga per questa via anche il mondo interno diventa bidimensionale. C’è spazio solo per l’istante, come per lo scatto fotografico, che è appunto un’istantanea (la stessa che troviamo nella casa della protagonista in cui giganteggia un poster che la ritrae giovane e in splendida forma). Non c’è storia, e non ci deve essere perché con la storia arriva anche il tempo, e il tempo è legato all’invecchiamento. Impossibile in questo senso non menzionare il testo di Freud “Caducità”, in cui il padre della psicoanalisi riferisce di un poeta (molto probabilmente Rainer Maria Rilke) intento ad ammirare la bellezza della natura nel corso di una passeggiata, ma incapace di gioirne in quanto turbato dal pensiero della transitorietà di tutta quella bellezza destinata a perire. Freud individua il motivo di quel turbamento: “Doveva essere stata la ribellione psichica contro il lutto a svilire ai loro occhi il godimento del bello.”. La ribellione per Elisabeth condurrà tragicamente all’autodistruzione, come conseguenza appunto della mancanza di elaborazione del lutto e dell’appiattimento sul concreto. E se tutto viene appiattito resta solo l’adesione. Adesione appunto, proprio come fa un adesivo applicato ad una superficie, che è appunto l’immagine emblematica che ritroviamo nella drammatica sequenza finale del film, in cui un residuo dell'ultima orripilante mutazione di Elisabeth si avvicina faticosamente alla stella della Walk of Fame sovrapponendosi a questa nell'ultimo tragico e disperato tentativo di ritornare al luminoso passato. Ovviamente a monte di tutto ritroviamo nel film il mito dell’eterna giovinezza, il sogno della vittoria della vita sulla morte. Siamo sul terreno del Frankenstein di Mary Shelley. Il film è un invito alla riflessione su ciò a cui assistiamo oggi, ovvero uno scivolamento progressivo della società verso una prevalenza del percettivo, del sensoriale a scapito del lavoro emotivo profondo. L'elaborazione viene sempre più considerata una fatica da evitare, uno scomodo fastidio a cui contrapporre la facilità di soluzioni fresche e immediate. In tal senso "The Substance” è anche un film che mette in luce quella che in termini psicoanalitici si potrebbe definire come una carenza di dialogo fra conscio e inconscio nella società, che è la premessa per la caduta in un funzionamento mentale primitivo. È ciò che troviamo rappresentato in maniera molto efficace nel film “Il dottor Stranamore” di Kubrick, dove i potenti del mondo si comportano in realtà come bambini che maneggiano testate nucleari come se fossero giocattoli, oppure in generale in tutte quelle forme di ubriacatura tecnologica intrisa di (falsa) onnipotenza che hanno preso forma in passato nel XX secolo con il mito del progresso e della velocità, e che possiamo rintracciare anche negli entusiasmi del presente per le AI. È una società che non riesce ad alimentare efficaci anticorpi contro simili minacce e al contrario inocula nei singoli, plasmandoli dall’interno, modelli e schemi di pensiero tossici impregnati di spinta all’imitazione. Emblematicamente nella prima sequenza del film vediamo, infatti, l’ago di una siringa che inocula appunto una sostanza in un tuorlo d’uovo, che si duplica. Da un punto di vista psicologico, il film si presta a essere letto anche come una rappresentazione plastica del destino a cui vanno incontro le parti indesiderate di noi che non vengono accolte in quanto detestate e disprezzabili, e pertanto combattute e in ultima analisi eliminate.